di Mario Rotta
A volte la scultura è il vuoto che circonda gli oggetti. Non è soltanto la materia e la forma. È l’aria che è rimasta, quella che ancora racchiude l’eco della fatica e della forza, il sussurro del dolore e l’ansia della conquista, la visione originaria, le parole sconnesse della verità. È la polvere, sono le scorie che si attaccano ai vestiti e alla pelle, le tracce di cenere sul prato, le righe sul pavimento. C’è soltanto un elemento primordiale di fronte a te, eterno e allo stesso tempo effimero come tutti gli elementi: la pietra, il legno, il ferro, dipende da quando e da come. Tutto il resto è nella tua anima. Lo sai, lo hai sempre saputo: vorresti che uscisse così come riesci a immaginarlo o a intuirlo, come un urlo, come una tempesta di vento e di fuoco, o forse soltanto come il rumore del silenzio, quello che scava, colpisce, annienta. Vorresti letteralmente che prendesse forma, anzi, che la forma prendesse l’aspetto di ciò che è, o di ciò che potrebbe diventare il mondo che percepisci in quel labirinto che ti sembra già risolto. Ma gli elementi sono incapaci di ascoltare. E tu, giustamente, non riesci a fartene una ragione. Non vuoi, non puoi, perché sarebbe un compromesso tra tutto quello che la tua anima può contenere e il vuoto, lo sconfinato vuoto che percepisci attorno, dentro, oltre. È qui che comincia la scultura? È qui che si nascondono i significati? Forse sì, ma non del tutto.
Penso che in quel momento il senso, la percezione sia ancora nella tua anima. E ci vorrà molto tempo prima che possa depositarsi sugli oggetti, così come nell’aria che respireranno, nei residui, nelle schegge d’acciaio. Giorno dopo giorno, una parte di te entrerà nella scultura e la renderà sempre più viva, mentre una parte della tua anima morirà ancora una volta nelle pagine strappate dai libri che ami che bruceranno sulla punta del trapano, o nei ricordi degli artisti che ammiri che rivedrai in ogni frammento di roccia portato via dallo scalpello. L’essenziale è invisibile agli occhi. Ma non allo sguardo obliquo di Sisifo. Non è forse per questo che mi hai detto che bisogna sentirsi felici per poter morire? Aggiungo soltanto che bisogna continuare a creare, ad ascoltare la voce della nostra vitalità, per potersi sentire felici.
Ma l’anima è il luogo dove abitiamo realmente, somiglia a una casa liquida, da cui non potremo uscire fino a quando non ci sembrerà che tutte le stanze siano state ultimate, o quanto meno somiglino a ciò che avevamo in mente. Le tue stanze, Giuliano, le stai costruendo a poco a poco, come se fossero una traccia per orientarsi nella mappa della tua anima. Non lo avevo mai notato prima, l’ho capito adesso, tornando a trovarti dopo tanto tempo. Ho attraversato stanze, piene di sculture e frammenti, e non sono riuscito a fermarmi all’apparenza, non le ho percepite come periodi, come raccolte, come un’antologia di ciò che sei stato e di ciò che hai fatto in tutti questi anni. Piuttosto, mi sono sembrate metafore di un racconto interiore, assonanze tra significati, messaggi, e anche un modo per non perdere quello che è rimasto nello spazio e nel tempo, quelle urla, quell’ansia, quella rabbia, e quell’amore che ti guida. Ho visto una stanza delle porte, da dove si può andare in ogni direzione: è l’inizio o la fine del labirinto? Di certo, è uno snodo importante, perché le porte ritornano, ovunque, enormi o minime, chiuse come se si dovesse sfondarle o aperte su un abisso che dovremmo avere almeno il coraggio di guardare, se non di respirare.
Ho visto una stanza dei totem e delle pietre ritrovate: forse sono i simboli dei tuoi compagni di viaggio, gli occhi con cui cerchi di guardarti. E allo stesso tempo le origini che non vuoi nascondere, le icone degli antichi, le ossa della terra.
Ho visto una stanza delle città e delle ragnatele di strade, che ora mi sembra straniante, come un viaggio che hai cominciato per poterti perdere, o perché ti eri perso. Ma erano città invisibili, appena appoggiate su percorsi simili a quelli che si illuminano camminando all’alba, una strategia inconscia per tracciare infinite possibilità, come succede in molti dei tuoi disegni.
Ho visto una stanza dei corpi e degli sguardi: corpi come desiderio o dolore, come sogno o come prigione, come sesso o come ferite. Mentre occhi senza pupille e senza iride aspettano che tu riesca a dare un nome anche alla loro anima, e intanto raccontano storie che portano tutte a un prologo (è la vitalità che spiega il corpo) o a un epilogo (è il corpo che spiega la sofferenza).
E poi, ho visto una stanza che potrei chiamare della terra e del cielo: forme essenziali che sembrano quasi raccolte lungo i fiumi e i calanchi, calpestate da figure complesse, contorte, reali come la morte, eteree come la vita, e intrecciate all’una e all’altra (alla vita e alla morte) indissolubilmente, come è sempre stato e sempre sarà.
Infine, ho visto stanze ancora vuote, a parte i frammenti di volontà e rappresentazione che già contengono, in attesa che tu esplori il cosmo, o il caos, che per il momento si nasconde oltre le loro pareti. Pareti di pietra, di legno, di metallo. A cui continuerai a cercare di dare una forma, ma sarebbe meglio dire un battito di ali che cerca di liberarsi, e che somiglia un po’ di più alla realizzazione della tua anima.