di Mario Rotta (1993)
La forza. La forza è l'anima del tuo lavoro. Giuliano, da quanto tempo non ti vedo? Da quanto tempo non so più quello che fai? Ma non dirmelo. Lasciami immaginare la distanza che ha percorso la tua arte negli ultimi due anni. Perché solo l'immagi-nazione, forse, consente la critica, mentre il giudicare, ciò che pretendono di fare i censori e i recensori, spesso non è che una vivisezione non autorizzata, il canto di uno sciacallo sopra il cadavere di un presunto innocente. Un canto che non voglio intonare, poiché i tuoi totem, le tue porte, le tue colonne, i tuoi falli, le tue forme di donna, non meritano io sorte della storicizzazione, né quella della sepoltura sotto la carta. Lasciale a chi ha bisogno di sentirsi rassicurato. A te non serve, e non serve a quegli oggetti che ricordo e ancora immagino in costante slancio verso l'alto come la colonna senza fine di Brancusi; diciamo pure sessualmente eretti - che c'è di male? - in quello stato di perenne eccitazione che è probabilmente l'anima del trascendere, la molla corporea della spiritualità. Mi chiedo, è forse questa, la verticalità, la categoria giusta per definire la tua scultura?
Quelle dettate dalla consuetudine non bastano, per te, né il vuoto, né il pieno, né l'assenza, né la presenza. Ciò che crei è indefinibile per definizione, è sfuggente. Così come parlare della verticalità. Non è che un'ulteriore constatazione. Non è un giudizio. Dirò allora dell'equilibrio, o dell'accurata sregolatezza dell'equilibrio che sembra guidare la tua ricerca di una forma mobile.
Mobile, sì, perché ricordo bene di quando, mentre ti parlavo di astrazione e empatia, tu osservavi i nidi delle rondini e ammiravi la loro architettura segreta: avrei dovuto capire subito che certe tue forme apparentemente solide e terrene in realtà non erano che scrigni pronti ad aprirsi ad un volo. Dirò ancora della materia, antagonista naturale della forza che vuoi esprimere, pietra, metallo, legno indurito dalle intemperie. Volumi su cui ti accanisci come se tu fossi l'erede di quegli antichi scalpellini che hanno trasformato in sogni di merletto e di traforo le arcane paure del medioevo; e forse lo sei. Dirò infine del tempo. Di quello vero. Inteso come scorrere delle cose, come sequenza infinita e interminabile di con¬traddizioni. Di quello che sfidi continuamente ogni volta che poni al centro dello spazio, del tuo spazio, la tua ultima stele di Rosetta, su cui per giorni e giorni, mesi, forse, anni, hai tolto e aggiunto gli accenni di un proclama sulla bellezza della natura, scavando in profondità i geroglifici di una scrittura chiara e lineare, pronta a scavalcarlo, il tempo tiranno, indelebile, indeperibile. No, Giuliano. La tua arte non è povera. Non cerca l'effimera apparizione sotto i riflettori di una mostra. Non racconta il tempo lasciandosi distruggere dai secondi che passano e dagli sguardi dei giornali. Non è alla moda, penserà qualcuno. Ma non vergognartene. Anzi. E un motivo un orgoglio, oggi come oggi. Perché c'è la forza di ciò che è arcaico, in essa. E in un mondo di dinosauri clonati, alla lunga, solo ciò che assomiglia di più al nucleo primordiale delle emozioni che abbiamo dentro potrà sopravvivere, solo ciò che gli anni hanno già temprato resisterà all'oblio.